ultimo aggiornamento: 7 Febbraio 2023 alle 15:26
definizione
Ciascuno dei fenomeni elementari con cui si manifesta un processo disfunzionale, una patologia o una malattia: il sintomo deve essere considerato come una sensazione soggettiva di dis-stress o dis-confort, espressione di un disturbo o di una malattia, di una patologia o di un morbo in grado di alterare la normale percezione di sé e del proprio corpo; in questo senso, il sintomo deve essere considerato, a tutti gli effetti, una manifestazione avvertita soggettivamente e per questo non misurabile.
Il lemma deriva dal greco συμπτωμα (sýmptōma → avvenimento fortuito, accidente), derivato di συμπίπτω (sympíptō → accadere, capitare): per questo si potrebbe definire il sintomo come ciò che accade alla persona, che gli capita; qualcosa che sta per manifestarsi o è già in atto, offrendo un indizio, un segnale, un segno o agendo come una spia, in grado di evidenziare qualcosa. Questo aspetto, connesso al significato etimologico del lemma, non deve essere sottovalutato in quanto il sintomo, oltre a possedere talvolta un significato metaforico, è invariabilmente un campanello d’allarme che ci informa che qualcosa si è alterato nell’equilibrio del nostro corpo: la soppressione dei sintomi, oltre a rendere difficoltosa l’identificazione delle cause reali, può essere pericolosa in quanto eliminato l’allarme, il processo morboso può progredire in modo silente, creando le condizioni per una degenerazione dell’alterazione sottostante.
Si parla, in genere, di sintomi obiettivi, qualora possano essere colti dall’esterno, da un osservatore, mentre vengono definiti sintomi soggettivi o subiettivi, se sono avvertiti esclusivamente da chi li manifesta; con la locuzione sintomi patognomonici (sintomi guida) si indicano quelle manifestazioni in grado di orientare la diagnosi verso una determinata malattia, in quanto caratteristici ed esclusivi di un determinato processo disfunzionale o patologico: viceversa, il sintomo di accompagnamento, definibile anche sintomo concomitante o sintomo marginale, è quel fenomeno aspecifico, non caratteristico del quadro morboso in atto ma che si esprime come conseguenza dello stesso, accoppiandosi ai sintomi patognomonici.
Si usa la locuzione sintomi generali per riferirsi, solitamente, a sensazioni quali astenia, acedia, abulia, perdita dell’appetito (da differenziare dall’ anoressia), febbre: sintomi aspecifici che solitamente non sono legati a malattie specifiche, ma piuttosto dipendenti dallo stato di perdita della cenestesi, cioè della sensazione di benessere che caratterizza il soggetto sano; con sintomo iniziale, si indicano le manifestazioni, spesso tipiche, che accompagnano l’esordio o l’insorgenza di un disturbo od una patologia, mentre sintomo terminale, è ciò che si evidenzia alla conclusione di una malattia; sintomo focale serve a indicare il focolaio (focus) interessato al processo patologico in atto, permettendo solitamente, di localizzare il punto o l’area coinvolta dal processo patologico, come spesso avviene nelle malattie neurologiche ove esiste talvolta un’area focale di lesione (ad esempio nell’ictus); per sintomo diretto, si intendono le manifestazioni provocate direttamente dalla lesione o dal disturbo funzionale in causa mentre il sintomo indiretto, è secondario al manifestarsi dalla lesione o dalla disfunzione, come ad esempio certe affezioni della pelle che possono essere sintomi indiretti di una malattia epatica, renale, allergica o sistemica; talvolta le manifestazioni sono sintomi provocati, in quanto è necessario il ricorso a particolari manovre per evocarli (anche se in questo caso è più corretto definirli segni o manovre).
sintomi e segni:
una guida alla comprensione del mal-essere
L’anamnesi può essere definita come la ricerca, spesso per mezzo di domande guidate, dell’insieme dei sintomi e dei segni che caratterizzano lo stato del sofferente, mentre la scienza che si occupa della lettura del loro significato è la semeiotica: per quanto i due termini vengano spesso utilizzati come sinonimi interscambiabili, in realtà con il termine sintomo, si suole indicare la sensazione soggettiva avvertita da chi la manifesta, come accade nel caso specifico del dolore, mentre con segni si dovrebbe denominare quanto può essere riscontrato obiettivamente; nella pratica comune, entrambi vengono impiegati per sottolineare l’entità delle manifestazioni conseguenti ai danni anatomici e fisiologici subiti dall’organismo oppure esprimono la risposta di difesa o adattamento messa in atto dallo stesso.
Infatti, se la disfunzione, la patologia o la malattia possono essere considerate come la risposta dell’organismo a una noxa o la conseguenza di una specifica eziologia che determina un danno alla struttura o alla funzione di uno o più organi e apparati del corpo, con conseguente alterazione del loro normale funzionamento, i sintomi ed i segni, che costituiscono il quadro clinico, sono le manifestazioni riconoscibili di tale alterazione.
Come già anticipato, anche se si parla di sintomi soggettivi e di sintomi obiettivi, nessun sintomo può essere considerato una manifestazione oggettiva, in quanto la sintomatologia non solo viene percepita esclusivamente da chi soffre, ma ne è l’interpretazione personale (sensazione), spesso venendo condizionata dalle emozioni che la persona vive in quello specifico momento: per quanto si possa cercare di esplorarne le caratteristiche o quantificarlo, inquadrarlo nosograficamente, sarà sempre e comunque una sensazione soggettiva, la descrizione di un percepito interpretato secondo i propri vissuti, i propri sistemi di credenza, le proprie esperienze, paure ed emozioni; l’abilità del professionista del ben-essere risiede nella capacità di inserire il “racconto” che descrive il percepito attraverso il filtro emozionale, in un quadro clinico, in un “progetto diagnostico” che, grazie alla noesi ed all’applicazione (spesso inconsapevole) di logiche bayesiane, conduce alla “scoperta” delle radici del mal-essere. Pertanto il “sintomo oggettivo” non esiste e dovrebbe, nonostante l’abitudine e l’uso comune, essere definito più propriamente segno, che, per definizione è un fenomeno oggettivo, misurabile, che può essere rilevato obiettivamente da persona diversa dal sofferente, oltre che da chi lo sente o lo verifica su di sé (il malato stesso).
Esempi tipici di sintomo sono il dolore, a varia localizzazione, che può prendere nomi differenti (cefalea, angina, colica …), ma che esprime invariabilmente uno stato di sofferenza misurabile esclusivamente secondo una scala di valori individuali e che può essere espressione di uno stato emotivo, psicologico o spirituale proiettato sul corpo sotto forma di somatizzazione; ugualmente, devono essere considerati soggettivi e quindi non valutabili oggettivamente, i disturbi della sensibilità e le alterazioni sensoriali: per quanto si cerchi di determinare scale di riferimento, la valutazione resta invariabilmente nella soggettività di chi soffre del disturbo. Si tratta quasi sempre di sintomi funzionali, legati cioè al disturbo di funzione, cioè alla dis-funzione dell’organo ammalato, che non possono essere obiettivati e che, addirittura, si possono prestare anche alla simulazione.
Quando i sintomi, al contrario, hanno anche un riscontro obiettivo, sono cioè sia avvertiti da chi è affetto dalla manifestazione sia rilevati dall’osservatore esterno, come ad esempio la dispnea, la febbre, la diarrea, la poliuria, la tachicardia, solo per citarne alcuni, possono essere definiti più propriamente segni, anche se sono abitualmente chiamati sintomi.
L’obiettivazione dei dati riferiti da chi è affetto dai sintomi, mediante le modalità previste dalla semeiotica fisica, ma anche l’analisi strumentale, ove sia possibile, o lo studio delle funzioni dell’organo oppure dell’apparato interessato sono la sfida che l’operatore professionale che si occupa di salute deve affrontare: la sensazione soggettiva di febbre avvertita da chi “non sta bene”, diviene un segno di valenza diagnostica nel momento in cui viene rilevata per mezzo del termotatto (contatto con la cute), o misurata con uno strumento apposito, il termometro clinico; l’affanno respiratorio di cui si lamenta il soggetto come sintomo respiratorio, diviene un segno evidente (o viene negato) all’osservazione o può essere oggettivato per mezzo delle prove di funzionalità respiratoria.
Si potrebbe affermare che un sintomo dovrebbe essere considerato un segno solo quando è verificabile, misurabile ed interpretabile in un contesto nosografico, cioè letto in base a un framework che permette di correlare l’evidenza dei fatti con il proprio significato in termini patognomonici: il puro sintomo deve essere accettato come un semplice segnale, come percezione personale ed individuale, di una condizione anomala dell’essere, che può (o può non …) indurre la ricerca di una possibile causa del disagio, del dis-confort e del dis-stress.
sintomi – terapia – guarigione
Il sintomo, sia esso espressione delle sensazioni personali o oggettivato (cioè sia un segno verificabile) deve essere sempre considerato un “viatico” nel percorso verso una diagnosi: il professionista del ben-essere, dando un giusto peso a quanto riferito da chi soffre dei sintomi ed ai segni che possono essere riscontrati, può costruirsi un quadro generale del mal-essere o delle disfunzioni potendo di conseguenza intraprendere un percorso volto a ripristinare, per quanto possibile, la salute.
Il quadro sintomatologico complessivo, spesso può essere definito con il lemma “sindrome” che rappresenta l’aggregazione di segni, sintomi e/o altre manifestazioni che definiscono un quadro clinico peculiare di un’entità morbosa; altre manifestazioni sono più difficili da definire ed indicano elementi che possono essere in parte riguardati come segni e in parte come sintomi oppure essere fenomeni o altri elementi clinico-anamnestici connotativi, indispensabili per indirizzare il percorso diagnostico verso l’identificazione del problema prevalente: in questo secondo caso, talvolta, ove non sia possibile associare chiaramente un quadro sintomatologico con una possibile disfunzione, patologia o malattia specifica, è possibile che i sintomi possano essere un elemento di confusione per l’operatore, nell’identificazione del vero problema.
Non sempre, infatti, il sintomo è patognomonico o chiarificatore, anzi, è possibile che si presenti una costellazione sintomatologica, ovvero una poliedricità sintomatologica contraddistinta da manifestazioni eterogenee frutto della stratificazione di differenti mal-esseri, che anziché orientare la diagnosi, ingeneri confusione nell’identificazione delle cause; non di rado l’utilizzo di rimedi sintomatici da parte di chi soffre del mal-essere, siano essi auto-prescritti o suggeriti da un professionista, può complicare un quadro già di per se poco chiaro.
Non di rado, alla base di una poliedricità sintomatologica si riscontra una poliedricità causale, frequentemente espressione di noxæ o dis-stress ripetuti e sedimentati nel tempo, che danno luogo più ad alterazioni funzionali e/o a patologie che si stratificano: talvolta diviene difficile riconoscere un singolo elemento causale, ma, piuttosto, si possono osservare molti artefici, cofattori eziologici o spine irritative, in grado di favorire lo squilibrio dell’organismo, agendo talvolta come cause determinanti talaltro come cause favorenti.
Un aspetto non secondario, che il professionista del ben-essere è tenuto a prendere in considerazione, è se la “terapia sintomatologica” sia utile o prioritaria per chi soffre: qualora il sintomo assuma un ruolo preponderante, limitando fortemente la qualità di vita di chi ne soffre, la scelta potrebbe essere preminente, anche se talvolta questa potrebbe condizionare il percorso verso l’identificazione delle vere cause o la “guarigione” del mal-essere, condizionando, di conseguenza, la possibilità di intervenire sul processo disfunzionale o patologico. Per quanto l’attivazione della vis medicatrix naturæ permetta di indirizzare l’energia dell’organismo verso una progressiva riequilibrazione e riarmonizzazione, favorendo un percorso di presunta “guarigione spontanea”, l’approccio sintomatologico può rivelarsi fuorviante, in quanto, in assenza di sintomi, si potrebbe arrivare ad ignorare le cause sottostanti alla manifestazione di allarme che il corpo porta all’attenzione di chi soffre.
il sintomo come metafora
Qualora si parli di “sintomi fisici” in grado di influenzare negativamente la quotidianità o di creare disagio, la maggioranza delle persone ritiene sia prioritario che questi vengano eliminati, a prescindere dalla ricerca di cosa li abbia generati: raramente, chi soffre di un mal-essere (sintomo) che genera manifestazioni acute (soprattutto se non sussistono cause organiche apparenti) o chi si trovi a dover fronteggiare uno stato di disagio cronicizzato con cui ha imparato a convivere, cerca di capire se la sintomatologia di cui è vittima sia un qualcosa che non affonda le proprie radici in una malattia o in una patologia, quanto piuttosto un “morbo” che esprime un disconfort dipendente dal proprio stile di vita, dalle proprie relazioni interpersonali. In pratica non si vuole riconosce al sintomo un valore metaforico, un carattere simbolico che può aiutarci a comprendere ciò che ci succede, offrendoci chiavi di lettura del nostro mal-essere.
L’insorgenza di mal-esseri che rappresentano una sofferenza personale, sintomi o segni che possono essere l’espressione di disturbi somatoformi che non hanno base organica, ma possono essere considerati vere e proprie somatizzazioni di un disagio emozionale, spesso sono negletti: sono trasformati in sintomi da cancellare attraverso un prodotto ad hoc, il cui unico fine sia l’eliminazione del sintomo stesso, ignorandone la possibile funzione maieutica, cioè di strumento per comprendere le radici del male. All’opposto, classificare il sintomo come manifestazione emotiva, senza aver indagato se esistano basi organiche non solo può risultare fuorviante, ma deve essere considerata una pericolosa deriva, che rischia di sottovalutare la disfunzione o la patologia, con rischi per la vita di chi soffre. Pertanto, una volta acclarato se i “sintomi fisici” siano da ricondursi (anche) ad un disagio emotivo o debbano essere considerati “esclusivamente” come espressione della malattia organica, è possibile cercare di comprendere quanto i due aspetti possano essere intrinsecamente connessi: si pensi al cosiddetto triangolo della salute da cui si evince chiaramente che esiste una interconnessione profonda ed inscindibile fra i differenti componenti.
La quotidianità di ognuno di noi ci mostra come l’insorgenza ciclica o sporadica di alcuni malesseri fisici non sia collegabile a specifiche alterazioni dello stato di salute o a cause organiche evidenti o accertate, quanto piuttosto al tentativo di riadattarsi o gestire un disagio che probabilmente ha una causa più in aspetti emotivi e relazionali, che corporei: una cefalea muscolo tensiva che rappresenta il tentativo di reggere al carico di aggressività inespressa, allo stringere i denti per tirare avanti, al dover continuare quando si vorrebbe fermarsi oppure il senso di costrizione precordiale e l’affanno (dispnea) associato al cuore in gola (tachicardia) che ci prende quando qualcosa ci spaventa o siamo in preda all’ansia sono solo due piccoli esempi di sintomi e segni che non manifestano uno stato patologico anche se ne possono essere i prodromi.
Sono esempi chiari che descrivono i momenti di impasse, le emozioni bloccate, la difficoltà ad esprimerci, le tensioni che non riusciamo a trasformare in energia di rinnovamento, i dubbi che insorgono alla vigilia di un cambiamento (lasciare la casa dei genitori, concludere un corso di studi, cercare un nuovo lavoro …) o il disagio che nasce dal sentirsi giudicati (un esame, un incarico, un nuovo ruolo …): spesso la sintomatologia che si associa blocca fisicamente lo svincolo da una situazione da cui non vogliamo in fondo distaccarci, immobilizza rendendo difficile l’agire, richiama su di noi l’attenzione degli altri esprimendo il nostro bisogno di supporto, di comprensione e sostegno (soprattutto nel caso di un fallimento) ed, in ultima istanza, di amore. Un mal di schiena può essere l’espressione dell’incapienza nei confronti di pesi emotivi e relazionali che ci sentiamo costretti a trasportare, mentre alcuni disturbi gastroenterici rappresentano il bisogno di buttar fuori, sfogarsi, vomitare o, al contrario, trattenere dentro di sé; un’eruzione cutanea a volte esprime l’impossibilità di trattenere, sotto pelle, ciò che viene bloccato, per effetto di un controllo spasmodico esercitato su sé stessi
Il sintomo ed il segno, quando non sono direttamente connessi a cause organiche, si delineano come un vettori di messaggi personali che assolvono al compito di educarci, dal latino educĕre (→ trarre fuori, condurre all’esterno), cioè portare a galla il nostro mal-essere attraverso una simbologia, per mezzo di una metafora, agendo come significante di ciò che neghiamo a noi stessi. Il manifestarsi di un sintomo o di un segno deve, in alcuni casi, essere compreso non solo per l’impatto che genera nelle persone, sulla “sfera affettiva” che le circonda o sull’ecosistema di riferimento in cui vivono ed agiscono, ma anche per il valore metaforico intrinseco che ha quel dato disagio, quel disconfort o quel distress personale, con gli effetti fisici, reali e concreti, che comporta: manifestazione reale e non simulata, in quanto la radice somato-emozionale della sintomatologia conferisce una forma somatica a ciò che è puramente emozionale.
Il sintomo appare, in alcuni casi, come un’allegoria della rappresentazione profonda ed inconsapevole del sé: l’obesità piuttosto o l’anoressia come espressioni della necessità di essere visti piuttosto che di scomparire agli occhi di qualcuno di caro: la raffigurazione della realtà, profonda e personale, attraverso simboli ed immagini che necessitano di manifestarsi con un linguaggio “corporeo” che ha una sua logica espressiva intrinseca, basata sull’interpretazione personale del mondo e dei suoi significati. La personale e soggettiva lettura del sé, della propria tribù, delle persone con cui ci relazioniamo, con il mondo, è il frutto di esperienze irripetibili e proprie che generano forme di linguaggio caratteristiche per ognuno di noi; il manifestarsi di un sintomo piuttosto che di un segno, possiede una sua intrinseca coerenza con le figurazioni mentali recondite che ognuno ha creato come conseguenza dei propri vissuti.
La metafora possiede intrinsecamente un aspetto trasgressivo: è in grado di disattendere ed infrangere le regole che costringono il sintomo fisico al mondo della malattia organica ed i vissuti emotivi alla sfera psichica, estendendo così i confini della manifestazione sintomatologica dal mondo fisico all’espressione del significato latente, portando alla luce le emozioni più profonde nascoste dietro ciò che appare; il disvelamento del significato e della funzione di un sintomo permette di giungere ad una maggior consapevolezza, depotenziando gli effetti degli stati emotivi che, bloccati all’interno o negati, hanno la necessità di “esprimersi attraverso il corpo”, sotto forma di manifestazioni somatiche che possono essere accolte come un messaggio caratterizzato da una sua propria simbologia.
Il sintomo (o il segno) diviene allora non solo un mezzo diagnostico o un indicatore terapeutico, ma anche uno strumento di comprensione delle tensioni e dello stress alla base del disconfort e del distress, in grado di permettere una maggiore comprensione della “sofferenza che morde nella carne e nella mente”.
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